L'amore è cieco, ma sa essere anche muto

Oslo, years ago. Era seduta su una panchina di Vigeland Park, tra quelle sculture che sembrano pensate da un Gaudì in overdose di viagra. Era mattina e sbocconcellava un pomodoro che le andava imbrattando il libro che leggeva. Ora non ricordo esattamente cosa le dissi nel mio acrobatico inglese d'allora, ma a "tomato" annuì. Bastò poco per realizzare che non eravamo in grado di comunicare in nessuna lingua. Per una settimana condividemmo il suo appartamento, i pomodori, l'amore, il pane nero, il dentifricio, tutto. Al posto delle parole, carezze e baci. I sorrisi a prendere il posto dei discorsi. Lunghi silenzi svolti come un tappeto ai piedi delle nostre giovinezze. Il ricordo più nitido è un pomeriggio in un parco, distesi uno di fronte all'altra e nel mezzo una margherita, gli occhi azzurri di lei e un sole che d'estate, da quelle parti, sembra non voler mai tramontare. Una mattina, insieme al caffè lungo e al burro salato, devo aver pensato ad alta voce un "I feel is time to go". Sento che è tempo di andare, ecco cosa mi fece dire questa febbre di muovere senza-sapere-dove che seguita ad infiammarmi. Lei mi guardò come se avessi detto "tomato". Insomma, capì. Mise dentro una busta pane nero, tristezza e pomodori. Mano nella mano andammo verso la stazione. Quasi arrivati, si fermò e mi guardò con quegli occhi che sembravano portare ancora una margherita impressa nell'iride. Mi abbracciò così forte che poi sul treno mi accorsi che i suoi pomodori e la mia anima erano acciaccati sfranti; e corse via, dribblando biondi passanti e grigi lampioni. Non so più niente di lei e non so nemmeno perchè ne scrivo ora. O forse sì. Il tempo amplifica certe sensazioni e ce le restituisce a suo modo. Forse in quei nostri silenzi c'è stata una capacità d'ascolto che non ho più ritrovato.