Maruska
Era una sera con una leggera brezza marina che sembrava pungere un po’ sulla pelle, quel 28 marzo di qualche anno fa. Avevo voglia di camminare per riflettere e mettere ordine nei mie pensieri. Camminavo senza meta lungo la provinciale che collega Napoli a Roma quando m’imbatto in una ragazza dall’apparente età 25 anni, con lo sguardo perso nel vuoto, un mini abito che copriva poco del suo corpo, con due lacrimoni sulle gote arrossate e una borsetta semiaperta ai suoi piedi. Al collo aveva una catenina d’oro molto sottile con un piccolo crocifisso. Lei neanche s’accorge che la guardavo. Sulla strada non passava nessuno e ho pensato che lei aspettasse una corriera per recarsi chissà dove. I suoi lacrimoni mi hanno impietosito. Mi avvicino e le chiedo se avesse bisogno di qualcosa e del perché di quelle lacrime. Lei, senza cambiare direzione al suo sguardo nel vuoto e cercando di chiudersi nelle spalle per evitare il freddo della brezza marina, mi risponde solo: “30 euro”. Ho realizzato in un attimo cosa stava avvenendo. Mi guardo intorno facendo attenzione che dalle poche auto di passaggio nessuno potesse vedermi con una prostituta e razionalizzare cattivi pensieri. In un attimo, io che cercavo di mettere ordine nella mia testa, sento un tourbillon nei miei pensieri: andare via o fare qualcosa per quella ragazza sola? Mi sfilo da dosso il giubbino di pelle marrone e lo adagio sulle sue spalle. Come se sembrasse uscita da un momento di trance, lei ritorna in sé e, per la prima volta, fissa il mio sguardo. I suoi occhi erano stupendi. Un verde smeraldo chiuso in un eccessivo trucco che deformava la sua bellezza. I suoi capelli biondi, mossi e con qualche riccio, le cadevano sulle spalle ora coperte dal mio giubbotto. Un abitino a spalline che a malapena riusciva a contenere l’esuberanza del suo seno, non volgare, e lasciava scoperte le sue lunghe e meravigliose gambe. Il suo viso era smunto e mostrava tutta la durezza della sofferenza. Ancora una volta, e stavolta mi parla con un accento che io attribuisco alla lingua ucraina, mi dice che se voglio fare l’amore devo darle 30 euro. Le dico che non volevo ma che intendevo darle un aiuto. Mentre le parlo faccio per poggiarle le mani sulle spalle e lei si ritira quasi con paura e fa un passo indietro, poi mi guarda da capo a piedi quasi s’aspettasse una mia mossa. Intanto cerco di avvicinarmi a lei per parlarle. Lei è molto timorosa e si guarda intorno con circospezione e quasi con paura. Le dico che non sono lì in cerca di una “evasione” ma solo perché stavo passeggiavo. D’improvviso, e quasi come a scaricare un peso come un macigno dal suo subconscio, lei si rifugia in un pianto che io definisco salutare e riconciliante. Sì, era come se si volesse pacificare con se stessa e con un mondo che al momento non le apparteneva, le era quasi ostile. Poco più avanti c’era uno snack bar. Le chiedo di farmi compagnia per un caffè e le offro una colazione, visto che aveva dei crampi allo stomaco. In quel momento, forse perché consapevole che non ero con lei come cliente ma come amico, lei si apre e mi racconta la sua vista in un piccolo paese dell’ucraina. Una vita di stenti, di sacrifici, di un futuro che all’orizzonte non si vedeva, di tante prostrazioni subite. Mi parla, mostrandomi alcune tumefazioni sul suo bianco corpo, della promessa fattale da alcuni suoi connazionali, di un lavoro in Italia come modella per le sfilate di moda. Già! Le sfilate lei le ha fatte ma non sulle passerelle di moda. Arrivata in Italia è stata allevata, ancora giovane, per soddisfare uomini vogliosi, bramosi e senza scrupoli. Sfruttata. Umiliata. Mortificata nel cuore e nell’anima. Svuotata di tutti i suoi sogni. Depauperata della sua bellezza interiore. Maruska, è il suo nome, era come un fiore reciso senza più linfa. Già, le sfilate! Tanta gente, invece, era sfilata davanti a lei. Quanti sì ha dovuto dire. Quante bugie ha dovuto raccontare alla sua famiglia. Quante volte ha… mentito perfino a se stessa. Mentre pago il barista le squilla il telefono e lei parla nel suo idioma che io non capisco. Andiamo fuori e le dico che se aveva voglia di riposare l’avrei portata in un albergo poco distante dove avrebbe potuto ristorarsi e dormire senza alcun pensiero. La guardo in viso mentre lei abbassa di nuovo la testa. Mi sto perdendo nel colore dei suoi occhi verde smeraldo quando due individui mi si avvicinano e mi danno tante botte che al solo pensarle sento addosso ancora quei dolori. Ho preso tanti pugni e calci su tutto il corpo che non son riuscito mai a guardare in faccia uno solo dei miei aggressori. Resto a terra tutto indolenzito mentre un auto s’allontana sgommando. A bordo c’era anche lei che mi lancia uno sguardo dal finestrino posteriore. Era uno sguardo impaurito. Non era felice. Ero addolorato ma non vinto. Sentivo che chiedeva aiuto. Avevo i miei pensieri in frantumi. Il giorno dopo con l’auto son ritornato in quel posto nella speranza di rivederla ma lei non c’era. Lei non c’era e non è più venuta neanche nei giorni e nei mesi successivi. Avranno cambiato posto o addirittura luogo. Io volevo solo aiutarla, volevo darle un conforto che gli altri non le hanno offerto. Conservo solo nei miei ricordi quei suoi occhi spenti ma belli, il suo volto provato ma sempre delicato. Sarà, per me, una foto che non scolorirà mai e se dovessi rivederla sarei comunque felice di darle l’aiuto che merita, anche a costo di essere nuovamente malmenato e minacciato. Il giorno dell’8 marzo di tutti gli anni mi ricorderò di lei, di quella donna alla quale è stata rubata l’innocenza, la felicità, lo sguardo verso il tramonto, l’abbraccio della vita.