Ho 40 schiavi, ma non ne conosco il nome

Ho 40 schiavi che lavorano per me. Mi servono durante i pasti, quando vado in bici, quando guardo la tv e quando mi faccio la barba. Hanno fatto la tazzina con la quale bevo questo caffè, la maglietta che ho addosso e il tablet con il quale vi scrivo.

Ho 40 schiavi, ma non conosco il loro nome.

Dal sito Slavery Footprint ho appena ottenuto quel numero dopo un breve questionario. E' rassicurante sapere che non ne abuso oltremisura. In media ogni europeo della mia età ne usa 55 di schiavi. Possono essere la ragazzina indiana venduta dalla sua famiglia per lavorare 16 ore al giorno senza paga come il raccoglitore di pomodori in California o in Campania. Lavoro minorile e lavoro forzato sono una componente determinante dell'economia globale. Agricoltura, pesca, foreste ... dal manifatturiero al minerario non c'è settore dove le braccia degli schiavi dell'età moderna non contribuiscano a determinare prezzi e mercato. Lo so, qualcuno obietterà che i processi di produzione di quel che compriamo ci sono il più delle volte sconosciuti e certo non basta un laconico "made in China" per dirci qualcosa in più della sola provenienza. Anzi, il percorso delle merci e la delocalizzazione delle loro lavorazioni rende perfino difficile accertarsi della loro effettiva collocazione geografica. Vero. Ma sul net ho pescato una notizia che nel prossimo futuro potrebbe finalmente aiutarci per un consumo più consapevole. Vi giro il link, è in inglese e mi scuso se non prendo più tempo per tradurlo. Ma quello che è scritto nell'articolo può rappresentare un'autentica svolta: grazie al DNA, la scienza è in grado di dirci molto di più sul prodotto finito. In altre parole, siamo in grado di tracciare il percorso del cotone della t-shirt che troviamo sui banchi del negozio di abbigliamento. A quel punto, forse costerà 5 euro in più acquistarne un'altra ... ma almeno avrò liberato qualcuno dei miei 40 schiavi senza nome.