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Marianna


Roma, estate duemilaqualcosa. Di lei non dirò come l'ho conosciuta, un pò per sintesi e più ancora perchè cambiarne il nome non mi sembra sufficiente per tutelarne la privacy. Eravamo tutti e due divorziati abbastanza per abbassare certe ovvie difese e finimmo presto per abbracciarci stretti nelle nostre residue paure.

Lei capelli corti e caffè lunghi, io a specchiare il mio sorriso con il suo. Della nostra prima notte d'amore ricordo il mattino presto, chè feci piano per lasciarla dormire e guadagnar la porta per le ferial faccende. Il messaggio di lei mi sorprese sul GRA e me ne piacque il tono secco di rimprovero di non averla svegliata per un bacio di saluto: c'era tutto per continuare a vederci, l'estate davanti a noi distesa come un tappeto di vimini.

Le sere sul terrazzone di casa sua, una di quelle costruzioni abusive della banlieu romana che dai-alziamo-un-altro-piano e qui la sala hobby e sotto il garage e tanto poi condono&sanatoria. A temperare il caldo il vino bianco e il ponentino, quel venticello romano che ormai devi andare a cercarlo in periferia. Lei conversatrice brillante, gli occhi vivaci patinati però di una qualche inconfessata ombra. Ogni donna verso i 40 anni conduce il suo trolley di amarezze, ma ecco in lei avvertivo qualcosa di più profondo ... lo leggevo Braille al tatto degli abbracci stretti nella stessa sdraio su quel terrazzone.

Sventolò per intero i fantasmi della sua anima una sera, appunto. Forse fu merito della sincerità dei baci o forse colpa del vino a buon mercato. Iniziò a parlare con un tono come in terza persona, tipo di quelle voci fuori campo che si occupano della narrazione teatrale. Mi disse di lei e di un bambino, mi disse di una carrozzina con la quale passeggiava con un figlio di pochi mesi, di una Piazza Navona con un banchetto di raccolta firme dove sentì una donna al megafono parlare delle conseguenze della nube radioattiva di Chernobyl, quel posto lì in Russia dove poche settimane prima una centrale nucleare aveva affidato al vento il suo carico di morte.

Continuò a parlare, senza guardarmi ... la voce priva di emozione ma sempre più innaturale, non sua insomma. Mi parlò di un bambino, di suo figlio, di un tumore alla tiroide, di giorni e notti vicino ad un lettino d'ospedale. Più di tutto ho nitido qui nella testa il ricordo di quando mi disse degli occhi di lui, di come la guardava come ad implorare quell'aiuto che lei non poteva darle. Ecco, quel senso d'impotenza che si accompagnava al dolore è la cosa che provò a rappresentarmi nel racconto e ci mise un punto con un abbraccio dove mescolammo insieme sudore e lacrime.

Quell'estate andammo insieme in vacanza in Bretagna... a Rennes i primi litigi, a Saint-Malo una notte dove l'amore lasciò da solo il sesso, a Lorient chiudemmo. In realtà andavamo l'un l'altra cercando un qualsiasi pretesto, come se quella dolorosa confessione ci avesse irrimediabilmente segnati, vergognosamente denudati.

Nel ripensarla ora, attraverso gli occhi di lei, mi par di scorgere lo sguardo di un bambino, di quel bambino suo che non ho mai visto. E se questo mio confuso scritto potesse come concentrarsi in una preghiera e in un bacetto ... allora non sarebbe stato inutile.

Ciao, Marianna.

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