Le orme degli ebrei a Roma. Storia di una comunità antichissima.
Le orme degli ebrei a Roma. Storia di una comunità antichissima
I più antichi documenti relativi alla comunità giudaico romana sono quelli relativi ai primi contatti fra questa e la Palestina, dove il dominio era esercitato dai dispotici regnanti Seleucidi, succeduti ad Alessandro Magno nella spartizione del regno. Nel 166 a.C. era divampata a Gerusalemme la rivolta dei fratelli Maccabei, che erano riusciti per qualche tempo a riconquistare l’indipendenza restaurando in Palestina la monarchia. Giuda Maccabeo venne a Roma nel 161 a.C. per sollecitare l’appoggio dei romani e stringere un patto di alleanza. Probabilmente già a quell’epoca era attivo nella capitale dell’impero un primo insediamento di ebrei attratti, come altre popolazioni semitiche, dai fiorenti commerci. Del resto una diaspora del popolo ebraico si era già verificata tempo addietro quando persa l’unità nazionale minata profondamente dalla cattività babilonese, nonostante l’editto di liberazione promulgato da Ciro nel 538 a.C., molti decisero di non tornare nel loro paese stabilendosi nelle città costiere della Fenicia e dell’Asia Minore, fondando tra l’altro ad Alessandria d’Egitto una fra le più ricche ed intellettuali colonie.
Un’altra ambasceria giunse a Roma nel 145 a.C. guidata da Gionata fratello e successore di Giuda, ma il trattato finale fu firmato (anche grazie all’“intercessione” di uno scudo d’oro di 500 chili!) solo nel 139 a.C.( per altri il 142) con l’arrivo della legazione guidata da Simone Maccabeo, consoli in Roma Popilius Laenas e Calpurnio Pisone.
Ed è proprio al 139 che va fatta risalire la prima espulsione di ebrei e caldei se dobbiamo tenere fede agli scritti di Valerio Massimo. Il passo non è universalmente accettato, ma si inserisce agevolmente in quel periodo di forte repressione che Roma aveva già attuato nel 186 a.C. con il senatoconsulto de Bacchanalibus emanato per frenare i riti bacchici. Tali provvedimenti tutto sommato furono piuttosto limitati e lo stesso senatoconsulto non proibiva il culto, ma piuttosto lo regolamentava.
Il successivo infoltirsi della comunità ebraica romana si legò, come i successivi, ad un episodio drammatico costituendo un primo segnale di quello che sarà un destino di violenza ed emarginazione.
Nella sua marcia vittoriosa il generale Pompeo (definito il serpente in un canto dei Salmi di Salomone), dopo aver ridotto la Siria in provincia romana, si recò in Palestina e adducendo come pretesto le lotte intestine che spaccavano il potere locale, la annesse alla Siria in seguito ad uno scontro sanguinoso (63 a.C.) durante il quale fu violato il Tempio di Gerusalemme. Nel 61 celebrò il suo magnifico trionfo facendo sfilare nel corteo i prigionieri ebrei, sancendo con questo brutale atto l’inizio di un’epoca contrassegnata da lutti e devastazioni che si ripeteranno per altre due volte con stringenti analogie.
Ai deportati di Pompeo si aggiungeranno quelli catturati nel 55 da Gabinio, nel 53 da Caio Longino, nel 37 da Sossio, anche se non tutti erano confluiti a Roma.
A dire di Filone la maggior parte venne ben presto liberata spontaneamente o per intercessione dei correligionari non incontrandosi particolari problemi per l’affrancamento. In effetti uno schiavo che aderiva rigidamente ai precetti religiosi, soprattutto per il riposo sabbatico, era un peso per qualunque padrone. La convivenza fra il primitivo insediamento di mercanti e i nuovi immigrati palestinesi creò un qualche scompiglio. In effetti la comunità si era ricavata una pacifica nicchia nell’operoso Trastevere cercando di non dare nell’occhio, comprendendo che il benvolere dei romani era indissolubilmente legato alla non violenza del gruppo.
In questa è la grande differenza fra il nucleo cristiano e quello ebreo. I romani compresero appieno la forza destabilizzante delle prime comunità cristiane foriera di ripercussioni politiche e sociali. Nelle formule di rito primitive non vi era distinzione, ebreo o greco, schiavo o libero, maschio o femmina erano un’unica cosa e questo livellamento estremo fu tradotto in pratica, finché la Chiesa non ridimensionò il fenomeno ripristinando i ruoli familiari. I pagani guardavano con sospetto alla familiarità del linguaggio cristiano, esternamente essi sembravano formare delle haeteriae (associazioni – Plinio) che potevano cospirare contro lo stato. Inoltre a differenza degli ebrei non seguivano gli antichi costumi della loro terra, giustificazione addotta per la tolleranza di quest’ultimi, ma aderivano ad un culto nuovo, senza radici, una vera e propria superstitio, passibile quindi di condanna. L’imperatore Tiberio, pur tentando di riconoscere il Cristianesimo, fu costretto a perseguirlo nel 35 d.C. come superstitio illicita con un senatoconsulto. Finché i cristiani furono confusi con gli ebrei (e perlomeno all’inizio vi fu una certa fluidità fra i due gruppi) non vennero perseguitati aspramente con la sola eccezione dell’espulsione voluta da Claudio nel 49 d.C. per i tumulti avvenuti impulsore Chresto (Svetonio), che costò agli ebrei un provvedimento in realtà indirizzato ai cristiani. Del resto l’autore degli Atti degli Apostoli considera ancora alla fine del I secolo la sinagoga come la base di partenza dei missionari cristiani e Paolo stesso mantiene contatti con le sinagoghe e si interroga sul mantenimento delle pratiche rituali ebraiche. Comunque sia, le Chiese paoline possono considerarsi già un movimento a parte. Va rilevata altresì la totale assenza nelle fonti giudaiche di testimonianze relative ai contatti primitivi fra i due gruppi religiosi, tanto abbondanti in quelle cristiane. Probabilmente in un primo tempo, anche per il numero esiguo degli adepti, i sacerdoti ebrei non percepirono la nuova setta messianica alla stregua di un pericolo, non replicando alle accuse rivoltegli dai cristiani impegnati nel rivendicare la loro autonomia. Solo dopo Costantino si renderanno conto della virulenza antiebraica insita nel movimento.
Il passaggio dalla Repubblica all’Impero
In questa fase cronologica la comunità giudaico romana, la cui storia va distinta da quella delle altre disseminate nel bacino del Mediterraneo, gode della protezione di Cesare e di Augusto.
Giulio Cesare in particolare li esonerò dal servizio militare (incompatibile con alcune loro pratiche), li agevolò nelle distribuzioni dell’annona permettendogli inoltre di riunirsi in collegia, abbozzando una sorta di “carta dei privilegi” a cui si appelleranno spesso in caso di abusi.
Svetonio descrivendo la morte di Cesare e le molte manifestazioni di cordoglio pubblico successive al suo assassinio, ricorda soprattutto i Giudei che, anche nelle notti successive, si riunirono attorno alla sua tomba.
Le benemerenze acquisite furono confermate da Augusto permettendo un notevole accrescimento degli insediamenti, confermato dalla notizia dataci da Filone che ben ottomila correligionari accompagnarono la delegazione giunta da Gerusalemme per sostenere la destituzione di Erode. Questo denuncia da una parte il cospicuo numero dei membri della comunità romana (solo i maschi di rango elevato avevano perorato la causa) e dall’altra la radicata tendenza filoasmonea e antierodiana della stessa.
Una prima incrinatura, seppur temporanea, si registra durante il principato tiberiano. Nel 19 d.C. quattromila giovani ebrei furono sottoposti ad una leva forzata in Sardegna (di cui rimane ancora oggi traccia linguistica), terra ai quei tempi remota e malsana, mentre altri vennero allontanati dalla città patendo, insieme agli appartenenti ad altri culti stranieri, l’ondata di repressione religiosa voluta dal perfido Seiano. Dopo la morte di questi, l’imperatore abrogò le misure punitive e gli ebrei poterono tornare a godere dei propri privilegi almeno fino all’età flavia, se si fa eccezione per la parentesi claudia del 49 d.C., sopra citata, che non ebbe particolari ripercussioni.
Un discorso a parte va fatto per il principato di Caligola. Questo giovane e bizzarro principe, figlio dell’eroe Germanico, restaurò il culto per l’imperatore vivente, aborrito da Tiberio, seguendo il modello ellenistico. Egli amico di Erode Agrippa, a cui concesse molti territori, difese la comunità giudaica di Alessandria che si era rifiutata di accogliere le statue dell’imperatore nelle sinagoghe, arrivando a mettere a morte il prefetto Flacco macchiatosi di gravi offese contro gli ebrei. Improvvisamente Caligola cambiò atteggiamento pretendendo che un suo simulacro venisse adorato nel tempio di Gerusalemme. Per sventare il pericolo il filosofo stoico-platonico Filone capeggiò una delegazione che fu ricevuta a Roma, con insuccesso, dal principe nel corso di un grottesco banchetto negli Horti Lamiani, teatro qualche tempo dopo della morte violenta dell’imperatore.
La resistenza in patria fu simile a quella eroica dei Maccabei tanto da impressionare il legato Petronio, che disobbedì a Caligola. Claudio subito dopo l’avvento al trono si affretterà a confermare i privilegi delle comunità giudaiche.
La persecuzione neroniana del 64 d.C. non intaccherà minimamente questo stato di cose, pare grazie alle simpatie di Poppea per la corrente giudaizzante. Del resto la condanna dei cristiani fu dovuta, come abbiamo visto, al suo conformarsi quale superstitio illicita, reato non contestabile agli ebrei.
Se a Roma vigeva questo tranquillo stato di cose nella madrepatria non poteva dirsi altrettanto.
Nel 66 d. C., gli Ebrei si sollevarono contro il dispotismo dei romani massacrando il presidio di Gerusalemme e sconfiggendo l’esercito accorso dalla Siria. Fu inviato il generale sabino Tito Flavio Vespasiano che, dopo un enorme spargimento di sangue, ricondusse il paese sotto il dominio dell’Impero. Acclamato imperatore ad un anno circa dalla morte di Nerone incaricò suo figlio Tito perché portasse a compimento la guerra giudaica. Dopo un terribile assedio posto a Gerusalemme e durato cinque mesi, egli riuscì nel 70 d.C. a vincere la città, che pagò con saccheggi e devastazioni inaudite la sua resistenza. Il tempio di Salomone fu depredato e bruciato, il popolo in catene portato a Roma.
Abbiamo una puntuale descrizione del corteo, in cui sfilarono capi e prigionieri aggiogati al carro dei trionfatori su cui riluceva il tesoro del tempio, nel resoconto di Giuseppe Flavio storico fariseo filoromano. Dopo qualche secolo la traduzione pittorica dell’evento sarà curata dal genio classicista di Andrea Mantegna con i pannelli ora ad Hampton Court.
I comandanti della rivolta (fra cui Jochanan di Ghiscala e Simon bar Ghiora) furono eliminati dopo aver ornato il trionfo, mentre il tesoro verrà esposto nel nuovo tempio della Pace, costruito come l’arco di Tito sulla via Sacra per commemorare questa vittoria. Dopo l’incendio del 192 d.C., che devastò il foro omonimo distruggendo probabilmente anche il sacro bottino (vi perì anche la biblioteca del medico Galeno) la storia del tesoro, con il suo passaggio di consegne fra re barbari, assunse contorni leggendari.
Dopo tale disfatta gli ebrei saranno costretti a versare nelle casse del tempio di Giove Capitolino il fiscus Judaicus, cancellato solo da Giuliano (361-363), quell’obolo che un tempo veniva impiegato per il Tempio di Gerusalemme e che li costringeva, con l’inserimento in una lista, ad un pericoloso controllo inasprito successivamente da Domiziano.
Contrariamente all’agiografia contemporanea Svetonio descrive Tito come un uomo vizioso e corrotto, divenuto morigerato con l’ascesa al trono. Nell’ottica di questa redenzione viene collocata dallo storico la vicenda di Berenice (sorella del re Erode Agrippa II) amante e concubina di Tito portata a Roma e ripudiata, che ispirò uno dei più bei racconti (La Principessa di Giudea) ancora oggi tramandato oralmente nel ghetto di Roma.
Leggendo le fonti dobbiamo quindi ravvederci su due fra gli imperatori più illuminati: Tito e Adriano. Di Tito abbiamo già parlato, per quel che riguarda il monarca filosofo di origine spagnola egli, dopo essere giunto (130) a Gerusalemme ed aver attentamente ascoltato gli abitanti, ordinerà la ricostruzione della città e del Tempio, ma a condizione che fosse mutato il suo nome in quello di Elia Capitolina, che venisse provvista di un santuario dedicato a Giove e che venisse interdetta agli Ebrei.
Tale affronto scatenò nel 132 la rivolta guidata da Simon bar Kochbà, conclusasi tragicamente nel 135 con l’annientamento del popolo di Gerusalemme. La diaspora iniziatasi con Tito si perfezionò con Adriano; un numero massiccio di ebrei giunse a Roma creando nuovamente un clima pericoloso che andava arginato. Innanzi tutto furono riscattati quasi tutti gli schiavi, in secondo luogo furono mitigati gli animi ribelli per non creare inutili dissapori con i governanti. Insieme a questi giunsero anche dotti rabbini fondamentali per la crescita culturale dello stanziamento giudaico romano e tramite necessario con la madrepatria.
In senso contrario va interpretato l’accrescimento avvenuto durante il regno severiano e lo stesso Settimio Severo, nonostante l’emanazione di un editto nel 204 teso a contenere culto ebraico e cristiano (rivolto maggiormente a quest’ultimo), fu talmente benevolo da permettere loro l’accesso alle cariche pubbliche. Il figlio Caracalla nel 212 concedendo la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero incluse in questo provvedimento anche gli ebrei, mentre Alessandro Severo (222-235) per la sua tolleranza fu chiamato archisinagogo.
Non altrettanto può dirsi per l’ambito cristiano in seno al quale crebbe la reazione antigiudaica concretizzatasi con l’avvento di Costantino, che proibì la conversione all’ebraismo, e di Teodosio che con l’editto del 380 proclamerà il cristianesimo unica religione di stato aprendo, con qualche interruzione, un’oscura stagione di persecuzioni.
I giudizi dei contemporanei
Val la pena di sottolineare l’autonomia di giudizio degli imperatori romani rispetto agli storici e ai letterati coevi. L’ebraismo fu da quest’ultimi non solo profondamente incompreso, generando perciò diffidenza, ma travisato, reso osceno ed ingenuo.
Cicerone lo disprezza, riportando i pesanti giudizi di Apollonio Molone e degli altri autori ellenistici, esprimendo preoccupazione per il potere acquisito dalla comunità.
Fra i detrattori possiamo citare Seneca, il disinibito Petronio, Tacito che dedica loro un intero capitolo colmo di dettagli ingiuriosi, Catullo, Plinio il Vecchio, Persio, Orazio e molti altri. Giovenale descriverà il nucleo abitante presso Porta Capena in modo folcloristico ed è proprio questa la cifra stilistica degli autori, di fronte alla non comprensione prevaleva l’irrisione.
Non altrettanto può dirsi per i ceti nobili che aderirono al culto; fra questi Flavio Clemente e Domitilla, cugini di Domiziano, che pagarono rispettivamente con la morte e con il confino la loro scelta.
I luoghi
Secondo lo storico Filone il primo insediamento abitativo fu quello del Trastevere originato dai deportati di Pompeo, ma in realtà mercanti ebrei furono a Roma almeno dal II secolo a.C. Ogni nuova ondata persecutoria nella madrepatria non faceva che incrementare i primitivi nuclei disseminati tra l’altro su tutto il territorio.
Il Trastevere era certamente l’abitato storico, quello più popoloso, legato alle attrattive commerciali, estrattive, mercantili e portuali situate in loco. Essi erano in compagnia di numerosi stranieri da tempo colà stanziati. Fin da età remotissima, a causa del clima malsano, il Senato aveva destinato questa regione a confino per i prigionieri di guerra, nella speranza non troppo peregrina che vi morissero.
Tuttavia gli ebrei non furono dediti solo all’accattonaggio e ai piccoli traffici come troviamo evidenziato nella letteratura; alcuni salirono la scala sociale fondando le proprie domus in quartieri residenziali. In alcuni casi ci è stato tramandato il loro cursus honorum (le cariche rivestite) attestante il rango elevato.
Tracce del loro passaggio sono nella Suburra, nell’area di Porta Capena, nel Campo Marzio e forse sull’Aventino; non distinguendosi spesso dagli altri abitanti potrebbero, con tutta probabilità, aver dimorato anche altrove.
Centro della vita comunitaria era la sinagoga attorno alla quale si raccoglievano. Tale edificio era ad un tempo ostello, ricovero e scuola, mantenendo quella straordinaria polifunzionalità che ha permesso nei secoli la sopravvivenza della loro cultura.
Nel Trastevere sono probabilmente da collocare le sinagoghe degli Augustenses, degli Agrippenses, di Volumnius (il procuratore della Siria?), la Tripolitana, l’Elea e quella di Arca del Libano. E’ evidente in alcune il collegamento con la famiglia imperiale, mentre per altre è dichiarata la provenienza degli affiliati.
Il quartiere, secondo Filone abitato già in età augustea da 40.000-50.000 abitanti, era servito da un importantissimo cimitero, scoperto ed esplorato nel 1602 da A. Bosio nella collina di Monteverde, ritrovato nel 1740 da R. Venuti, ma già nel 1843 (esplorazioni di padre Marchi) scomparso come lamentato dal Lanciani. Nel 1919 viene data notizia del rinvenimento, con conseguente raccolta di materiali epigrafici, di una delle gallerie avvenuto in seguito all’esplosione di una mina per ricavare tufo litoide. Successivamente verrà definitivamente obliterato. In modo singolare si continuò a seppellire non lontano anche in età postclassica, almeno già dal 1300, in quel Campo Giudio, detto anche Ortaccio degli Ebrei, su cui sorgerà in seguito la Stazione di Trastevere. La necropoli antica ha fornito nel tempo una numerosissima messe di iscrizioni, dispersa in musei e collezioni pubbliche e private, che ha permesso agli studiosi di ricostruire un contesto peraltro non ampiamente documentato.
R. Lanciani ricorda anche la sinagoga del Campus (probabilmente nel Campo Marzio) e del Portus Augusti, mentre A. Milano nomina in aggiunta quella dei Severi, degli Erodiani e dei Vernacoli, i cui appartenenti rivendicavano una più antica permanenza in città.
Nella Suburra erano forse da ubicare la sinagoga dei Calcarenses (collocata variamente anche nel Trastevere), dei Suburenses e probabilmente degli Ebrei e l’appartenenza all’una o all’altra di queste scholae evidenziava la differenza fra ebrei giudaizzanti ed ebrei ellenizzanti. E’ da escludere la presenza di appartenenti alla schola Calcarensium in via della Polveriera (vicus Pulverarius), trattandosi di un toponimo legato alla calce e non alla pozzolana (pulvis).
Gli abitanti di questo popoloso quartiere seppellivano i defunti nella catacomba di Vigna Randanini messa in luce nel 1859 (presso un diverticolo della via Appia Antica) e nel piccolo cimitero della Via Labicana rinvenuto nel 1882. Ugualmente sull’Appia il sepolcreto di Vigna Cimarra (1863).
Anche coloro che frequentavano la zona di Porta Capena e dell’Aventino dovettero utilizzare la necropoli di Vigna Randanini o di S. Sebastiano, nel cui sopraterra alcuni studiosi hanno voluto ravvisare una sinagoga.
Oggi sono visitabili soltanto le catacombe della via Appia Pignatelli e di villa Torlonia.
Le catacombe ebraiche sono più antiche di quelle cristiane (vanno dal I a.C. al IV d.C. circa), ma a loro simili per la scansione in gallerie, loculi e arcosoli, decorati con modeste pitture, stucchi e fondi di vetro dorato. Se ne discostano sostanzialmente per l’uso. Per gli ebrei furono solo luoghi di sepoltura, per i cristiani costituirono anche centri di adunanza e raccoglimento presso le tombe dei martiri.
Dalle epigrafi, dipinte o graffite, possiamo desumere che la lingua privilegiata fu il greco, utilizzato comunemente nelle transazioni commerciali, piuttosto diffuso il latino, poco presente l’ebraico.
Concludendo è necessario, per completezza di dati, menzionare la sinagoga scoperta ad Ostia antica nel 1961 le cui fasi vanno dal I secolo d.C. al IV e che testimonia insieme con le iscrizioni provenienti da Castel Porziano, Pianabella e dall’Episcopio, l’importanza assurta da questa colonia di ebrei (Universitas Iudeorum) protetti come a Roma dal favore imperiale. Ed è proprio in questa sinagoga che troviamo una testimonianza peculiare; la dedica che un privato fa a sue spese alla salute (salus) dell’imperatore confermando quella tendenza misticheggiante del giudaismo della diaspora (F. Zevi).
Tornando a Roma va in ultimo specificato che solo a partire dal 1200 la comunità si sposterà dall’altra parte del fiume dove subirà con la bolla paolina del 1555 la vergognosa chiusura. Fino al 1100 ancora godeva di una discreta prosperità come testimonia Benjamin de Tudela, colto mercante ebreo, che si compiacerà dello stato favorevole in cui versavano i suoi correligionari.