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Caporetto, 24 ottobre 1917


24 ottobre 1917, oggi fa giusto un secolo. La data dirà qualcosa a pochi, ma se aggiungo Caporetto forse qualche lampadina s'accende. La storia ha trasformato delle piccole località in parole ricche di significato. Ad esempio Waterloo è un piccolo centro del Brabante eppure è diventato sinonimo di disfatta. È' quello che è accaduto per Caporetto, un pugno di case nell'odierna Slovenia. Vi rassicuro da subito. Non voglio svolgere uno studio su quella battaglia e sulle cause del rovescio che rappresentò per l'esercito italiano nella Grande Guerra. Qui mi proverò a rilevare come Caporetto - o meglio, la rappresentazione che se ne è fatta - costituisca un eccellente esempio di un inveterato vizio nostrano. Perché il vero sport nazionale non è il calcio, non è il caffè in tazzina e nemmeno l'inventare cervellotiche leggi elettorali storpiando il latino. No, lo sport più popolare per gli italiani è quello di parlar male del proprio Paese. Durante la Prima Guerra Mondiale ogni esercito conobbe delle tragiche sconfitte e diverse volte con perdite di gran lunga superiori a quelle che subimmo a Caporetto. Eppure su quell'episodio - tutto sommato secondario sull'insanguinata bilancia delle sorti del conflitto - pesa il marchio infamante del disonore. Perché? Una prima risposta è già contenuta nel bollettino di guerra che il comandante in capo delle truppe italiane emanò immediatamente dopo la sconfitta. Il generale Cadorna se la prese con i soldati "vilmente ritiratisi senza combattere, ignominiosamente arresisi al nemico". E poco importa che questo allucinante comunicato sia stato ritirato qualche ora dopo, ormai era in mano ai governi alleati e ai giornalisti stranieri. Insomma, ancora oggi quando si nomina Caporetto si sente dire "è il posto dove gli italiani sono scappati". Non è vero e per fortuna i più recenti studi storiografici hanno provato a mettere una pezza a questa irriverente interpretazione. Ma anche nello stordito proclama di Cadorna si può leggere, in trasparenza, un altro consolidato difetto nazionale: la colpa è sempre degli altri e quasi mai di chi comanda. Nei cinema è in programmazione un film che si intitola "Dunkirk". L'ho visto e non ve lo raccomando, ma la trama verte su un episodio dell'ultima guerra. Le truppe britanniche e quelle francesi, travolte dai panzer tedeschi, finirono per ritirarsi su un fazzoletto di spiaggia sulla Manica e riuscirono a fatica e solo in parte ad imbarcarsi per i porti inglesi. Per gli alleati fu uno smacco umiliante, eppure seppero trasformarlo in un motivo di propagandistica riscossa. Ecco, la differenza tra noi e loro è tutta qui. Mentre sui dizionari francesi Dunkerque è sinonimo di rivincita, alla voce "Caporetto" il Garzanti ci restituisce "sconfitta disastrosa". Con tutti i nostri mali e i nostri guai, sarebbe ora di tirare su la schiena, sarebbe ora di scomporre quel sostantivo e farlo diventare Capo Retto. Perché, anche specchiandoci nella nostra storia, "io sono italiano" va detto a testa alta. - APPENDICE Ma no, non chiudo così. Perché si può sventolare il tricolore senza arenarsi sulle secche del provincialismo, si può scrivere Patria con la maiuscola senza franare nello sciovinismo. Sul fronte carsico-isontino morirono uomini di ogni nazionalità e per ricordarli il fiume Isonzo è stato recentemente dichiarato "fiume sacro ai popoli d'Europa". Quelle acque si sono arrossate del sangue di milioni di ragazzi che non hanno fatto ritorno a casa e le lacrime delle mamme di Vienna, di Budapest, di Praga, di Berlino non sono state diverse da quelle delle mamme lombarde o siciliane. Ad un secolo di distanza, proviamo ad onorare quei caduti nel migliore dei modi: da cittadini d'Italia e del mondo, in un'Europa di pace.

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