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Il Fidel italiano


Alle Olimpiadi di Parigi del 1924 due giovani pugili italiani (Gaetano Lanzi, romano, 19 anni e Rinaldo Castellenghi, milanese, 18) si trovarono la strada sbarrata da un altro giovane talento anche lui di radici italiane, Fidel LaBarba, diciannovenne di New York cresciuto poi a Los Angeles. Gaetano si arrese per KOT al secondo round del secondo turno, Rinaldo chiuse in piedi la semifinale, ma malconcio tanto da non poter tornare sul ring per giocarsi il bronzo olimpico. Fidel, centosessanta centimetri, porto' a casa l'oro dei pesi mosca e la conferma che, ancor prima di finire il liceo, si aprivano le porte della boxe professionista. Il talento tascabile con un solo paio di scarpe e consumate, dei mille lavoretti prima e dopo scuola, degli incontri di boxe all'aperto durante il picnic annuale degli italiani di LA, il quarterback della squadra liceale di football (non quella vera, ma dei piccoletti) con 30 vittorie ed una sola sconfitta in carriera era pronto al grande salto.

Un anno per diventare campione nazionale, altri due per il titolo mondiale. Il malcapitato scozzese Elky Clark perde tutte le dodici riprese e va giu' quattro volte davanti ai 16000 del Madison Square Garden. Ma Fidel continua a vedere oltre il ring e , con la stessa determinazione che lo aveva fatto frequentare il liceo dopo aver lavorato chissa' dove fino all'alba, decide di entrare all'universita' di Stanford, allora come ora, una di quelle che contano. Ma la boxe chiama con i suoi contratti e le sue sfide, torna ad allenarsi dopo poco piu' di un anno, a fare a pugni salendo di categoria, piuma, per arrivare su su fino alla chance mondiale con Battling Battalino sempre nel tempio del Madison.

E' l'inizio del declino, la sconfitta poi il distacco della retina in allenamento ed il progressivo peggioramento della vista fino alla definitiva perdita di un occhio. Scorza dura Fidel torno' a Stanford per riprendere da dove aveva lasciato. Una laurea in giornalismo, apprezzato corrispondente sportivo e costantemente vicino ad Hollywood per portare la sua conoscenza nelle tante storie di boxe raccontate dal cinema americano.

Qualche settimana fa, visitando il museo italo-americano di Los Angeles, sono incappato in una sua foto ed adesso sono qui dietro alla sua storia. Fidel era Fedele all'anagrafe. Papa' Domenico e Mamma Palmina erano di Crecchio e Arielli, paesi della provincia di Chieti. Arrivarano ad Ellis Island nel 1894, terza classe sulla nave Wieland. Nel Bronx nascono Louis, Francis, Theodore, Anthony, Joseph, il nostro Fedele, Maria ed Antonia. Affidati in vari istituti, Fedele scappa e torna casa per aiutare il papa', presto vedovo, ad andare avanti: lustrascarpe, strillone, ragazzo di fatica al bowling. Poi la California, tante altre battaglie vinte e perse, tutte sempre e comunque combattute fra le corde del quadrato e lontano. Anche in divisa, con il corpo di spedizione americano che lo porta a vedere la sua, mai conosciuta Italia. Il cuore dice basta nel 1981, arrivera' anni dopo l'eterno riconoscimento della Hall of Fame dei grandi del suo sport.

Duro, durissimo e leale Fedele, Fidel per tutti. Come in quella semifinale tremenda con Castellenghi al Velodromo d'inverno di Parigi 1924. Il milanese in lacrime, fra disappunto e dolore, a fine match e Fidel che gli si avvicina, lo abbraccia ed in dialetto abruzzese gli dice "sei stato bravo e pure io sono italiano".

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