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#facebookdown


Ieri pomeriggio Facebook ha smesso di funzionare. Il problema non si è presentato dappertutto e nemmeno nello stesso modo, ma milioni di utenti si sono trovati fuori dal social più popolare. Come non bastasse, anche Instagram e Whatsapp sono andati in tilt. La cosa è durata poche ore, ma sono bastate per dar voce al web e Twitter ne è diventato l'ovvio megafono, visto che i suoi cinguettii sono rimasti esenti da certi problemi. Tra le chicche più gustose colgo un apocalittico "Fate postare prima le donne e i bambini!" e un sardonico "Avevo detto a Zuckerberg di non accendere forno ed asciugacapelli insieme". Ma torno al #facebookdown per segnalarne due effetti che si sono subito manifestati. Il primo è immerso nella psico-sociologia: sono bastate poche ore senza quelle piattaforma per evidenziare delle autentiche patologie. Alcune di queste sono censite da tempo e significativamente sono stati gli americani i primi ad evidenziarle. Un esempio su tutti è il "phubbing", una sindrome che porta a privilegiare le relazioni via smartphone rispetto a quelle in carne e ossa. Ecco, ieri moltissimi hanno potuto testare se ne sono affetti. L'altro elemento di riflessione che mi sento di ricavare dal black-out di ieri lo pesco dalle iniziative legali che le associazioni di consumatori intenderebbero prendere nei confronti di Facebook e Instagram. La motivazione è quella di "interruzione di pubblico servizio" e nei prossimi giorni ne valuteremo gli sviluppi. Sulle prime, qualcuno potrà obiettare che non ha senso intraprendere una class action nei confronti di società che non fanno pagare niente ai propri iscritti. Vero, ma solo in apparenza. Sono cifre iperboliche quelle che viaggiano all'ombra della Grande Effe Minuscola. E poi è sempre bene tenere a mente che quando un prodotto ti viene fornito gratis, vuol dire che il prodotto sei tu.

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