Un ritaglio di giornale
Forse anche qualcuno di voi fa lo stesso, ma io ho affisso nello studio uno di quei pannelli in sughero dove attaccare appunti, foto, memo, ritagli di giornali. Di questi ultimi ce n'è uno che è lì da 16 anni ed è la lettera ad un giornale del papà di un militare italiano impegnato in Iraq. Parla delle ore di preoccupazione vissute nell'attesa dei nomi dei morti dell'attentato di Nassiriya, parla del sollievo e del conseguente senso di colpa provato quando ha saputo che il figlio non era tra i caduti, parla dello sdegno che gli ha suscitato il veder passare la pubblicità in tv durante i funerali di quei ragazzi. La sua lettera è lì, in quel mio disordinato raccoglitore di memorie, ormai quasi ingiallita dal tempo.
Oggi, nel ricordare la strage di Nassiriya, vanno in scena la rituale sfilata di tricolori listati a lutto sui social e le solite frasi di circostanza che galleggiano sulla retorica. E se è raro che vengano ricordati anche i morti civili (di questi anche degli innocenti iracheni), quasi mai si parla di colpe, come se queste si esaurissero nelle rivendicazioni degli assassini. E invece no, ci sono state responsabilità anche nella conduzione di quella missione, nel non aver dato ascolto alle informazioni della nostra Intelligence che avvertiva i comandi militari dell'imminenza di un'azione terroristica. Dopo anni di processi, fin qui è stato condannato - e in sede civile, non penale - solo un generale. Troppo poco, sa di capro espiatorio e non soddisfa l'esigenza di una sentenza che finalmente accerti per intero la verità dei fatti. Le famiglie delle vittime attendono ancora giustizia, perché Nassiriya non diventi una nuova Ustica. Io intanto quel ritaglio di giornale lo conservo, come memo e come monito.