Il deltaplano di Silvia
Prima una duplice, doverosa premessa: sono contento che Silvia Romano sia di nuovo a casa e non mi interessa sapere se è tornata musulmana o interista. Aggiungo che trovo ripugnanti gli insulti sessisti che le hanno vomitato dai social. Ora però a margine della vicenda fatemi dire qualcosa in più. Abbiamo impegnato risorse umane e finanziarie per liberare la giovane milanese dai suoi carcerieri, ma va detto che Silvia Romano non era in Kenya per curare dei malati o per costruire pozzi. La ricca documentazione fotografica che ha accompagnato la sua avventura africana la vede sorridente tra i bambini e al massimo impegnata ad allungare un biberon a qualche bebè, un'attività che un sacco di ragazze indigene avrebbero potuto svolgere meglio di lei se solo incentivate da qualche centesimo di offerte. Silvia non era lì per Emergency o per Medici Senza Frontiere e nemmeno svolgeva quell'attività missionaria che da decenni vede sul campo migliaia di sacerdoti, suore e laici. E' il fondatore del Sermig, il Servizio Missionario Giovani, a dire in un'intervista che : «non ci si può improvvisare, servono sette anni per formare un volontario. Non mandiamo una persona da sola e dobbiamo avere un punto di riferimento sul posto». Mentre spero che la magistratura accerti le responsabilità della onlus che ha spedito Silvia in Kenya, mi domando se non sia il caso di disciplinare finalmente in modo più severo certe imprudenti iniziative, ad esempio vagliando preventivamente la richiesta di visti per zone ritenute internazionalmente pericolose. Vuoi proprio andarci? Ok, fatti una bella assicurazione così se dobbiamo venire a riprenderti almeno ci restituisci i soldi. Sennò diventa come quando - a nostre spese - dobbiamo spedire gli elicotteri a recuperare quei coglioni che si lanciano col deltaplano da una collina ligure per finire su un ghiacciaio in Val d'Aosta.