Ri-Partire
Ripartire. E' forse uno dei verbi più abusati, in questo periodo. Sta per "ricominciare, partire di nuovo", a significare che dopo i mesi di chiusura delle attività è tempo di tornare al lavoro e allo studio. Tutto giusto, ci mancherebbe altro. Quel che non mi piace è il fatto che questo verbo "ripartire" venga usato di rado nella sua forma transitiva. Ripartire vuol dire infatti anche "dividere, spartire, suddividere tra più soggetti". Il coronavirus va rappresentando una spietata cartina al tornasole dei vizi del mondo, perché restituisce con drammatica evidenza il divario tra paesi ricchi e poveri. Non voglio ricorrere ai numeri di contagi e decessi, anche in ragione del fatto che certe differenze non hanno dovuto aspettare il covid per manifestarsi. Se serve un esempio, mentre in Europa è fenomeno ormai circoscritto, in Africa i malati di HIV muoiono ancora a migliaia di tubercolosi. Dicevo che non voglio parlare di sanità, ma di commercio; per le economie dei paesi più poveri rappresenta parte indispensabile del PIL. Anche qui mi spiego meglio con un esempio: il Bangladesh era, prima della pandemia, il secondo esportatore di tessile al mondo (dopo la Cina, c'era bisogno di dirlo?). Oggi milioni di famiglie bengalesi si trovano senza lavoro e sono tornate sotto il livello di povertà. Insomma, sì che è tempo di ripartire. Ma facciamo in modo che significhi anche suddividere meglio e in modo più equo.